domenica 11 dicembre 2011

Confini aperti

Spesso l’immagine del medioevo che emerge dai libri di testo, anche i più aggiornati, è quella di un’età “statica”, caratterizzata da una scarsa mobilità delle persone.
L’unico riferimento a spostamenti riguarda le migrazioni dei popoli germanici dell’alto medioevo o le spedizioni militari. Ma appena ci avviciniamo alle fonti, ci rendiamo conto che la realtà era molto diversa e, anzi, potremmo vedere proprio nella mobilità un tratto distintivo di quel lungo periodo che convenzionalmente definiamo come medioevo. Certo, questa mobilità riguardava soprattutto l’élite sociale, in particolare l’alto clero e i potentes, ma non dobbiamo trascurare il fatto che anche i gruppi sociali più bassi potevano essere soggetto di migrazioni e spostamenti, legati per lo più a pratiche religiose come i pellegrinaggi...

Il tema del viaggio, d’altronde, si intreccia direttamente con vari temi “classici” della medievistica, come il pellegrinaggio, l’organizzazione dei commerci, lo spostamento degli eserciti, le crociate, la definizione degli itinerari regi. Anche l’influenza delle Alpi sulla mobilità medievale è stata messa a punto negli ultimi decenni in alcune importanti monografie e convegni, che hanno più volte ribadito come esse più che un ostacolo fossero, almeno sino al pieno medioevo, soprattutto una “cerniera” tra nord e sud Europa.
Un contributo importante, in tal senso, è giunto dalle ricerche di Giuseppe Sergi, docente di Storia medievale presso l’Università di Torino, che si è dedicato a più riprese al tema delle strade nel medioevo, contestualizzato, però, all’interno di una nuova concezione della storia politica.
Più che la ricostruzione del tracciato delle singole vie di comunicazione egli ha cercato di definire il ruolo che le strade hanno avuto come generatore sociale; in particolare ha elaborato il concetto di “area di strada”, ripreso successivamente dal medievista francese Pierre Toubert e da diversi altri studiosi, con il quale ha inteso indicare «la fascia di territorio che, su tempi lunghi, appare permanentemente interessata da un traffico significativo»; all’interno di questo territorio, la strada, in particolare in area alpina, può esser vista come «canalizzatore di tendenze, di espansioni, di sviluppi sociali, di progetti politici"..
In particolare per quanto riguarda la strada alpina, Sergi ha identificato quattro funzioni differenti. Essa era innanzitutto un canalizzatore di tendenze, di espansioni, di sviluppi sociali, di progetti politici; contemporaneamente era però anche un generatore, di modelli sociali, di insediamenti (si pensi ai cosiddetti Straßendörfer, i villaggi costruiti lungo una strada), di servizi (ospizi, xenodochi, monasteri ecc.), di insediamenti signorili; ma la strada alpina medievale era anche un acceleratore di processi storici e un regolatore, in particolare dei rapporti sociali.

Frontiere e confini

L’Europa successiva all’applicazione del trattato di Schengen si caratterizza per la presenza di confini “invisibili”: ogni stato ha una sua precisa estensione territoriale, ma chi passa un confine spesso non se ne accorge nemmeno; solamente dopo alcuni chilometri grazie alle scritte, ai paesaggi, alla lingua si accorge di essere entrato in un nuovo paese. Una situazione in parte simile la viveva il viaggiatore medievale.
Ciò non significa, naturalmente, che nel medioevo non esistessero posti di confine, ma essi erano situati solamente in alcuni punti strategici e iniziarono ad assumere una certa rilevanza in particolare dopo il Mille. Spesso, poi, si confondevano con i ben più numerosi luoghi legati all’esazione di dazi signorili. Il confine medievale, infatti, era un qualcosa di impalpabile, di impreciso, legato spesso a signa, quali pietre, fiumi, monti. Era un confine ideale, marcato simbolicamente, spesso poco preciso. Non a caso continui sono nelle fonti medievali i riferimenti a contese relative ai confini. Basti ricordare, ad esempio, un documento dei primi anni successivi al Mille, dedicato a una controversia relativa ai confini tra il comitato[1] della Val Pusteria e quella della Norital o Valle Norica, un territorio, quest’ultimo che comprendeva gran parte della Val d’Isarco e della valle dell’Inn

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Al tempo del vescovo di Sabiona Albuino, di cara memoria, e del conte Ottone è sorta una contesa relativa ai confini tra la Pusteria e la Valle Norica, contesa che è stata conclusa per ordine del re Enrico e, una volta determinati i confini, è stata così definita con il giuramento degli scabini di ambedue le parti..."

I confini altomedievali erano quindi “segni sulla terra”, spesso difficili da interpretare. Non sempre coincidevano con i “confini militari”, con la rete di chiuse e castelli che, sia pure in modo differente a seconda delle epoche, controllava i valichi alpini e le principali vie di comunicazione. Ma, ciò che è più importante ricordare, è che almeno sino al XIII secolo non esisteva un unico confine: infatti, accanto ai confini, spesso puramente teorici, dei comitati, c’erano quelli, più definiti, delle diocesi, testimoni dell’antica distrettuazione romana, e quelli delle aree signorili che i singoli potenti si erano costruiti con la violenza.

Nel VI secolo per un breve periodo il territorio dell’odierno Trentino fu in parte sottoposto al controllo degli Ostrogoti, per giungere poi, dopo una brevissima pausa costituita dal controllo bizantino, sotto il controllo dei Longobardi che vi costituirono un ducato dai confini estremamente mobili, in particolare per quanto riguardava i territori più settentrionali, posti grosso modo tra le attuali Merano e Bolzano.
D’altronde in età longobarda «se da una parte per le sinuosità dei confini fra terre longobarde e bizantine e per il carattere militare del controllo dell’intero territorio – si potrebbe sostenere che la frontiera, in Italia, era un po’ dappertutto, dall’altra potremmo affermare che la frontiera, se intesa come limite, come frattura netta, non esisteva, in quanto il dato più evidente che emerge dalle fonti è proprio l’opposto: la permeabilità dei confini e la compenetrazione umana, agricola e commerciale delle zone frontaliere"
Ciò non vale solo per i Longobardi, ma anche per i Baiuvari che grosso modo nello stesso periodo iniziarono a penetrare nei territori a sud del Brennero. Anzi, poiché la loro non fu un’invasione di popolo, ma uno stanziamento militare o religioso.
Il medesimo discorso vale anche per l’età carolingia, quando tutto il territorio tra Inn e Adige fu posto all’interno di un unico dominio, quello dei Franchi, sia pur con il controllo di sovrani differenti. Nel X e nell’XI secolo, in un momento di debolezza dei poteri centrali, nell’area al centro del nostro interesse emersero i poteri dei vescovi, che cercarono di costruire delle loro aree di dominio su territori non coincidenti con i confini delle loro diocesi, come confermano in modo particolare le concessioni dei poteri comitali del 1027, con le quali l’imperatore Corrado II conferì al vescovo di Bressanone i diritti comitali sulla Norital e a quello di Trento medesimi diritti sul comitato di Trento, Bolzano e Venosta. Di nuovo venne a crearsi un intrico di confini che, pur estremamente importante dal punto di vista della storia istituzionale, non costituiva assolutamente un problema per la mobilità. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che una delle principali cause delle concessioni del 1027 fu proprio la necessità imperiale di poter controllare le vie di comunicazione che collegavano i territori settentrionali dell’Impero a quelli più meridionali.
Più che dai “grandi poteri” la maggior parte degli impedimenti era dovuta alle esazioni bannali dei piccoli signori locali che, a partire dalla fine dell’XI secolo, con la crisi della politica egemonica vescovile, iniziarono ad avere una crescente importanza. Furono questi nuovi gruppi emergenti a porre sempre più ostacoli alla mobilità, in particolare a quella mercantile che proprio nei medesimi anni iniziava ad avere una nuova espansione a livello europeo.
L’istituzione di frontiere avvicinabili in parte a quelle odierne la si ebbe solo a partire dal XIII secolo, quando la famiglia dei Tirolo dapprima con Alberto III e poi con Mainardo II iniziò a porre le basi per uno stato territoriale. Non a caso proprio con Mainardo II i movimenti lungo le strade che attraversavano la contea del Tirolo divennero più sicuri. La costituzione di un forte potere centrale aveva portato a un graduale indebolimento di quell’anarchia signorile che aveva permesso la perpetuazione di continue vessazioni sui viaggiatori. Al tempo stesso i Tirolo erano sempre più coscienti del vantaggio economico che avrebbero potuto trarre dal controllo delle vie di comunicazione. Essi garantivano ai viaggiatori, in particolare ai commercianti, strade sicure e ben tenute; in cambio, però, praticavano il cosiddetto Straßenzwang, l’obbligo per tutti i viaggiatori di percorrere strade in cui erano situati i posti di dogana; in altri termini essi, in cambio della sicurezza, esigevano un pedaggio.
Protagonisti costanti delle strade medievali erano i pellegrini, a loro volta vera categoria sociale interclassista. Essi, e questo forse può sorprendere, erano composti per quasi la metà da donne

Molti erano anche i bambini, in particolare malati, che venivano accompagnati dai genitori nei luoghi di culto per implorare una loro guarigione, a conferma che già in epoca medievale vi era un’attenzione per l’infanzia, spesso messa in discussione dagli storici. Talvolta addirittura alcune fonti testimoniano dei pellegrinaggi organizzati autonomamente dai bambini. Donne, uomini o bambini che fossero i pellegrini appartenevano agli strati sociali più diversi; anzi, si può dire che in età medievale solo il pellegrinaggio rompesse quelle barriere sociali che altrimenti apparivano inamovibili. Raramente i pellegrini si mettevano in strada da soli; per lo più essi si univano in piccoli gruppi, in modo tale da garantirsi reciproco aiuto durante il viaggio, ed erano preceduti da un pellegrino che portava uno stendardo.

Al di là della loro appartenenza sociale i pellegrini vestivano quasi sempre in modo analogo: portavano una semplice camicia, pantaloni comodi e scarpe resistenti; indispensabile, poi, erano un lungo mantello, che serviva anche come coperta, e il cappello a tesa larga, che riparava sia dalla pioggia sia dal sole. Non poteva mancare, infine, una borraccia e un bastone d’ausilio per il lungo cammino. Infatti, anche per contenere i costi del viaggio, la maggior parte dei pellegrini andava per pedes, percorrendo in media circa 30 chilometri al giorno. Il bagaglio era quasi sempre ridotto a una bisaccia con il minimo indispensabile per il viaggio:

Giunto a destinazione, il pellegrino riceveva delle insegne che testimoniavano il successo della sua impresa e che venivano applicate alla bisaccia o al cappello: le più ambite erano la conchiglia che si riceveva a Santiago de Compostela, l’immagine di Pietro e Paolo che si otteneva a Roma oppure la croce che veniva assegnata a chi giungeva a Gerusalemme.

Queste tre località erano infatti le destinazioni principali dei grandi pellegrinaggi medievali, i quali spesso potevano durare degli anni, ed erano il fulcro delle due maggiori “reti stradali” dell’epoca, la via di Santiago, il cui tratto principale iniziava a Roncisvalle, sui Pirenei, e la “via Francigena”, che attraversava longitudinalmente l’Europa, da Canterbury a Roma.

Anche i vescovi erano "itineranti"! Una delle principali testimonianze documentarie d’età medievale per il territorio della diocesi di Bressanone è costituita dai Libri traditionum, una raccolta, in copia, degli atti di compra-vendita vescovili. Già da una loro prima lettura veloce possiamo vedere come i vescovi, sempre presenti nel momento delle transazioni economiche, anche di quelle meno importanti, fossero sempre in movimento, sia pure in un ambito territoriale relativamente limitato. Del resto non dobbiamo dimenticare che essi spesso prendevano parte a spedizioni militari e non raramente svolgevano missioni diplomatiche per conto di grandi signori laici o per rafforzare il proprio potere signorile. Non da ultimo essi dovevano visitare la loro diocesi, per verificare che l’attività liturgica procedesse nei modi dovuti e che il basso clero non desse scandalo. Anche i vescovi, pertanto, come gli altri potentes medievali, erano “itineranti”.

Una preziosa testimonianza a tal proposito la possiamo trovare nella “vita” di un vescovo che operò nel X secolo in Baviera, Ulrico, che per ben cinquant’anni, tra il 923 e il 973, resse la sede vescovile di Augusta (Augsburg), in un territorio non lontano dalla diocesi di Bressanone. Seduto sul suo carro, Ulrico si spostava da monastero a monastero, da città in città, per rappresentare visivamente con la propria attività la centralità del suo ruolo. Ogni suo gesto era ricco di significati simbolici, non era mai fine a se stesso.E proprio sempre nella “vita” di Ulrico ci vengono narrate le difficoltà che il vescovo di Augusta dovette incontrare in uno dei suoi numerosi viaggi verso la città santa.

Nei suoi ultimi anni, desiderando salvare la sua anima, decise, benché sentisse scemare di giorno in giorno le forze del suo corpo, di visitare le tombe degli apostoli Pietro e Paolo con intenzione devota. Dopo aver fatto una piccola parte del suo viaggio sul carro ed esser giunto a delle strade più difficili, non potè procedere oltre se non sdraiato su un letto trainato da dei cavalli. Proseguendo in tal modo, benché sembrasse pericoloso al suo seguito, grazie a Dio e all’apostolo san Pietro giunse a Roma senza pericolo.

In tal modo, sdraiato su una sorta di slitta, Ulrico potè superare le difficoltà che chiunque incontrava nel valicare le Alpi

Per tutto il medioevo in area alpina la viabilità fu quasi ovunque basata sugli antichi tracciati delle vie romane. Si trattava di strade assai difficoltose da attraversare nei mesi invernali poiché si inerpicavano ad altitudini considerevoli, in particolare nelle zone di valico, e quasi sempre erano semplici strade in terra battuta, rafforzate talvolta da una massicciata di ghiaia. Si può immaginare le difficoltà che potevano incontrare su un terreno simile i cavalli o i carri. Inoltre le strade erano male segnalate: più che da “cartelli stradali” il loro percorso era indicato da segni, simili a quelli che oggi troviamo lungo i sentieri di montagna, segni che però erano per lo più lasciati alla cura dei viaggiatori stessi. Solo a partire dal XIV secolo, quando il controllo delle strade divenne una crescente fonte di reddito per chi le portava sotto il proprio dominio, anche la loro manutenzione fu migliorata, sulla scorta di quanto avveniva già in epoca carolingia. Sempre negli stessi anni aumentò l’attenzione signorile anche per i ponti, che iniziavano a sostituire i traghetti i quali, sino almeno al XII secolo, erano il mezzo più usato per attraversare i fiumi.D’altra parte i corsi d’acqua erano un tassello importantissimo nella mobilità medievale, in particolare per lo spostamento di merci.





[1] Con il termine comitato generalmente si indica per l’età altomedievale la circoscrizione territoriale all’interno della quale il conte (comes), che era un funzionario pubblico, esercitava le sue funzioni. In tal modo lo si vuole distinguere dalle contee di epoca successiva, le quali per lo più erano aree in cui dei signori, autonominatisi conti, si ergevano a sovrani.






(da: Confini aperti. Un percorso sulla mobilità medievale nella regione tra Inn e Adige di
Giuseppe Albertoni)


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