Tratto dal libro "Eva dorme" di Francesca Melandri:
".. Da quando sul fronte russo una granata gli aveva dilaniato una gamba, Silvius Magnago non aveva mai più dormito bene. Il dolore fisico all’arto fantasma era il suo compagno segreto da più di vent’anni. Solo a lui sentiva di rivelare la propria vera natura: la sua forza, rabbia, tenacia e disperazione, il risentimento verso i sani che non sanno cosa sia vivere con la sofferenza nelle carni, ma anche la capacità di focalizzarsi sull’essenziale. Da quando Magnago aveva ricevuto quei pezzi di ruvida carta igienica trafugati dal carcere di Bolzano, però, quello alla gamba gli sembrava niente, in confronto all’altro dolore: non aver fatto nulla per coloro che avevano riposto in lui l’ultima speranza.
I vestiti che le mogli degli arrestati della Feuernacht si erano viste riconsegnare, qualche tempo dopo gli arresti, erano ricoperti di sangue, vomito ed escrementi. I Bumser del BaS erano però, in fondo, uomini semplici. Nonostante tutto erano fiduciosi che, se si fosse saputo del trattamento disumano che stavano subendo nel carcere di Bolzano, il mondo si sarebbe prodigato in ogni modo per salvarli. Avevano fatto di tutto per comunicare all’esterno del carcere informazioni sulle torture subite. Qualche biglietto venne intercettato, e il suo mittente punito, ma altri riuscirono a eludere la censura. L’ovvio destinatario della loro richiesta d’aiuto era stato lui, Silvius Magnago, la voce politica più autorevole del Sudtirolo.
Magnago aveva ricevuto quei miseri pezzetti di carta verso la fine del 1961. E, lui che del dolore fisico molto sapeva, aveva sentito come suo lo spasmo dell’acido lattico nelle braccia tenute alzate per ore; le lacerazioni dei tessuti che si strappano sotto i pugni e lo schiocco sinistro delle ossa frantumate; i conati d’incredulo orrore di chi è costretto a mangiare i propri escrementi; i polmoni che scoppiano mentre la testa è tenuta sott’acqua; il delirio della deprivazione di sonno.
Aveva letto quei biglietti senza quasi respirare. Aveva pianto, nel silenzio del suo studio ricoperto di boiserie chiara affacciato sulla strada signorile di Bolzano. Gli erano riapparsi alla mente episodi cui aveva assistito in guerra da giovane Gebirgsjägerleutnant, immagini che aveva sperato di non dover ricordare mai più. Aveva volto lo sguardo fuori dalla finestra, verso l’amato calicanto che potava ogni anno lui stesso. Era spoglio ora; i fiori gialli che annunciavano la primavera con il loro profumo di vaniglia non erano ancora sbocciati. Nemmeno loro potevano dargli conforto.
La Südtiroler Volkspartei, il partito di cui era alla guida, non poteva permettersi di essere associato, nemmeno alla lontana, con i Bumser. Troppo fragile era ancora il processo di acquisizione di una vera autonomia per il Sudtirolo. Andavano messi in conto i tempi biblici della politica, il balletto dei colloqui, delle promesse e delle minacce da parte di uno Stato che aveva negato il problema per così tanto tempo da farlo marcire, e che cominciava a rendersi conto della necessità di un progetto per questa provincia solo ora che era diventata una polveriera.
Magnago aveva iniziato a tessere una tela fine e delicatissima di trattative e compromessi per ottenere quell’autonomia provinciale (“Los von Trient!”) che sola poteva risolvere l’impasse dell’alto adige e impedire lo scenario più atroce: la guerra etnica. Sapeva bene che il marcato accento tedesco con cui parlava l’italiano, peraltro in modo impeccabile, convinceva a priori gli interlocutori a Roma di un suo fondamentale, incistato odio contro di loro. Sapeva quanta diplomazia, pazienza e sordità deliberata alle battute fossero necessarie anche solo per spiegare il punto di partenza della trattativa: i sudtirolesi non odiavano gli italiani, bensì la colonizzazione che avevano subito da parte dello Stato italiano. Sapeva di non poter correre il rischio di essere assimilato a coloro che avevano fatto ricorso alle bombe, anche solo contro le infrastrutture.
Ma c’era un altro motivo d’angoscia, non legato a considerazioni di opportunità politica bensì esistenziale, in quei foglietti di carta scritti, letteralmente, con il sangue di uomini torturati. Nella sua Alma Mater Bologna, dove si era laureato in Giurisprudenza, Magnago si era convinto che solo il dialogo, la ricerca del compromesso, il duro ma onesto confronto tra posizioni anche molto diverse sono strumenti superiori a qualsiasi, qualsiasi!, forma di violenza. Chi rinuncia all’argomentazione verbale e ricorre ad azioni distruttive contro cose o persone, per quanto giuste siano le sue ragioni, si mette dalla parte del torto: ecco l’unico credo politico di Silvius Magnago. Egli non si era mai lasciato affascinare da nessuna delle ideologie di quel suo secolo di ferro e di fuoco. Era diventato adulto poco prima dell’inizio della carneficina mondiale, e aveva visto fin troppo bene a cosa si arriva quando la politica cede il passo alla violenza: un pianeta in fiamme. Sentiva, nella propria carne amputata e nel dolore che ne irradiava ogni istante, il dovere di preservare i corpi, sempre. Non solo i corpi della gente del suo Heimatland, di coloro che gli avevano dato il mandato di rappresentarli; ma anche i corpi dei suoi oppositori, degli ignavi politici di Roma, perfino di quegli amministratori che dalle loro posizioni di piccolo, ottuso potere rendevano difficile la vita alla sua gente. Il suo dovere era questo: separare, sempre, la lotta politica dalla distruzione fisica, anche quella di tralicci dell’alta tensione.
Con cura aveva ripiegato i foglietti in una busta e li aveva riposti in un luogo noto a lui solo. In seguito si venne a sapere delle torture nel carcere di Bolzano, ma non fu Silvius Magnago a denunciarle.
Nei due anni passati da allora, due uomini del BaS erano morti in carcere per i pestaggi o per le loro conseguenze. Molti altri avevano subito lesioni permanenti. Le torture impressero sui loro corpi il marchio indelebile della sofferenza, così come la guerra aveva fatto su quello del Gebirgsjägerleutnant Magnago. Ci fu un processo contro i carabinieri colpevoli dei maltrattamenti e i loro difensori sostennero che i detenuti si fossero procurati da soli le ferite – nonostante fossero documentate da decine di certificati medici che furono messi agli atti – al solo scopo di screditare l’Italia. La loro tesi fu accolta, gli imputati tutti assolti e, alla lettura del verdetto, lasciarono l’aula liberi e festeggiati dai parenti. Per tutti loro ci fu l’elogio ufficiale del comandante della Benemerita, il generale De Lorenzo. Le loro vittime, i detenuti che avevano ridotto a creature spezzate e piangenti, furono ricondotti in carcere con i ferri ai polsi. Silvius Magnago non rivelò mai quanto gli fosse costata la decisione di non accogliere la disperata richiesta d’aiuto dei Bumser. Né se il loro martirio affollasse d’incubi il già scarso sonno delle sue notti.
I corpi. Preservare i corpi. Con loro, non aveva potuto..."
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