giovedì 28 ottobre 2010

Alexander Langer, un uomo senza frontiere

Alexander Langer nasce a Vipiteno il 22 febbraio 1946 e muore a Firenze il 3 luglio 1995.
In un suo libro scriveva: E’ sempre complicato spiegare da dove vengo. ‘Ma allora sei italiano o tedesco?’ Nessuna delle bandiere che svettano davanti a ostelli o campeggi è la mia. Non ne sento la mancanza. In compenso riesco, con il tedesco e l’italiano, a parlare e a capire nell’arco che va dalla Danimarca alla Sicilia.”
Conobbe don Lorenzo Milani e la sua scuola di Barbiana e nel 1970 tradusse in tedesco il suo libro Lettera a una professoressa.
Imparò diverse lingue e vari dialetti e sviluppò la sua naturale predisposizione al dialogo e all’incontro con gli altri.

In una raccolta di appunti annotò: “Sul mio ponte si transita in entrambe le direzioni e sono contento di poter contribuire a far circolare idee e persone”.
Verso la fine degli anni Sessanta si dedicò totalmente al suo Sud Tirolo – Alto Adige, impegnandosi per far comprendere ai suoi conterranei che l’unica alternativa al conflitto degli attentati poteva provenire sperimentando la convivenza tra diverse etnie, nel rispetto reciproco.

Nel 1989 fu eletto al Parlamento europeo nelle liste Verdi. Nel 1991 fece parte degli osservatori internazionali nelle prime elezioni libere in Albania e fece passare a Strasburgo una risoluzione contro la brevettabilità delle manipolazioni genetiche di materia vivente.
Nel 1992 partecipò all’organizzazione della conferenza mondiale sull’ambiente a Rio de Janeiro e alla parallela conferenza Global Forum. In tale occasione propose una riduzione del debito dei Paesi in via di sviluppo.
Nel 1994 fu rieletto al Parlamento europeo e divenne presidente del gruppo Verde; inoltre fu membro della commissione politica estera. Partecipò a seminari e incontri; fu membro del Movimento Nonviolento, finanziatore della Casa per la nonviolenza di Verona e obiettore alle spese militari.

Si interessò della questione dei Balcani. Si oppose alle precipitose dichiarazioni di indipendenza, che avrebbero poi fomentato gli odi etnici e la guerra. Cercò invece di far entrare la Bosnia Erzegovina nell’Unione Europea, per preservarla dalla guerrra, e cercò di sostenere i profughi e gli obiettori di coscienza. Presentò una risoluzione per la creazione di un Corpo civile europeo di pace, formato da professionisti non armati sotto l’egida dell’O.N.U.
Compì diversi viaggi in Jugoslavia e si interessò soprattutto della situazione di Tuzla, città bosniaca dove si era mantenuta una cordialità fra le diverse etnie, facendogli sembrare qui possibile ciò che non era riuscito nel suo Sud Tirolo. Ma l’attentato del 25 maggio 1995 nel quale persero la vita settantun ragazzi fra i diciotto e i vent’anni incrinò la sua speranza.
Arrivò a sostenere un intervento armato di polizia internazionale. Scrisse: “Di fronte agli ultimi eventi in Bosnia, non è più possibile tentennare: bisogna che l’O.N.U. invii un cospicuo contingente supplementare (chiedendo, se del caso, l’aiuto della N.A.T.O. e della U.E.O.) e assegni un nuovo e chiaro mandato ai caschi blu. Quello di ristabilire – con l’uso dei mezzi necessari – quel minimo di rispetto dell’ordine internazionale che consenta di cercare una soluzione politica al dramma della distruzione della convivenza e della democrazia.”
Si tolse la vita al Pian dei Giullari presso Firenze nell’anniversario della morte del padre, il 3 luglio 1995, all’età di quarantanove anni.
Probabilmente le ragioni del suo gesto sono da ricercare nelle parole che lui stesso aveva usato per scrivere il necrologio della sua amica attivista verde Petra Kelly, anche lei morta suicida: “Forse è troppo arduo essere portatori di speranze collettive: troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa oggetto, troppo grande il carico di amore per l’umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere.

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